a cura di Marco Zanchetta
Questo mercoledì 27 novembre sul palco del Combo di Firenze è in programma il concerto degli Estra. Fuori fa freddo ed è buio e la stanchezza si fa sentire, ma ci sono occasioni in cui difficilmente ci si potrebbe perdonare un’assenza e questa è per me una di quelle. Nel 1995 la loro prima timida intervista, dentro un palazzetto della provincia del nord est qualche mese prima di “Metamorfosi”, prima uscita discografica con la produzione artistica di Massimo Bubola. Una vita fa, un mondo fa, un luogo che oramai è altrove, ma canzoni che sono rimaste sotto la pelle. Ora gli Estra sono tornati, dopo dieci anni dal loro ultimo live e dopo ventitré dal loro “Tunnel supermarket”. Con grande sorpresa ed entusiasmo dei fan nel 2023 hanno attivato un crowfounding, raccogliendo più di trentamila euro e potendo così registrare e incidere un nuovo album, “Gli anni venti”, che verrà premiato con la Targa MEI – Premio Italiano Musica Indipendente – quale miglior artista del 2024.
Questa sera devo esserci, partecipare, dare calore a un ritorno che, come afferma Giulio Casale, “non è un revival, avviene perché abbiamo un dialogo aperto col tempo presente”, perché “senza la musica non si esce dal conformismo imperante”. E infatti il nuovo disco è proprio questo: uno sguardo rabbioso sul presente, un richiamo disperato alla ribellione, un sussulto di affannoso orgoglio espresso in un linguaggio diretto, più esplicito rispetto a quello a cui il gruppo ci aveva abituato. Un disco che ha i loro tratti e la loro poetica, ma che rappresenta una pagina nuova perché siamo in una pagina nuova. Gli Estra si definiscono ora più che mai “antifascisti militanti”, in un panorama in cui “il nero è dappertutto”, come recita la canzone che dà il titolo all’album, e purtroppo non possiamo fingere che non sia così. Del resto “E’ giusto stare qui, all’inferno. Bisogna stare qui, all’inferno”, richiamo di “Nel 2026”, altro titolo del nuovo disco, sfoderato tutto e subito come un violento soffio sul viso, come un veloce schiaffo improvviso.
Non siamo tanti in sala, strattonati dalla chitarra geniale, insistente e totalizzante di Abe Salvadori, dalla voce potente e dolorante di Giulio Casale, dal basso intestinale di Eddy Bassan, dalla inconfondibile ritmica della batteria di Nicola Ghedin e dai suoni e dalle tastiere dell’artista Marco Olivotto, inedito accompagnatore nella tournée e già ospite in sala di incisione. Con lui nell’ultimo disco anche Marco Paolini, voce recitante nella intro “Signora Jones”, preludio alla crudezza e alla violenza che farà da filo conduttore alle tracce a venire, Pierpaolo Capovilla in “Notte poi” (Ci daranno benzodiazepine , la giustizia no. È una lunga notte nera, rete partigiana in down. Tu che farai per resistere, tu dove andrai. Gli ultimi umani siamo noi) e l’Orchestra Regionale Filarmonica Veneta, che intona la “Marcia Funebre” dalla Sinfonia n.1 in re maggiore di Mahler.
Ascolto gli Estra appoggiato ad una colonna nel buio del locale e mi accorgo di commuovermi senza rendermene conto, senza darmelo a vedere. Mi commuovo perché canzoni come“Preghiera”, come “Fiesta” o “L’uomo coi tagli”, che arrivano nel finale, potrebbero essere state scritte ieri sera e sarebbero altrettanto necessarie e pregne del loro senso esistenziale e politico. Io sono ancora qui ad ascoltarle e loro sono ancora qui a cantarle. Trent’anni dopo feriscono in un modo diverso, ma con una lama ancora più affilata, forse per il tempo che ci ha reso più fragili o forse per il palese fallimento generazione di cui siamo irrimediabilmente colpevoli.
Io finisco la birra e intanto gli Estra ci salutano sulle note di “Vieni”. Ringraziano chi è venuto fin qui, chi sta applaudendo, chi c’è ancora, comunque e nonostante tutto.
“Have a good night”.