FIRENZE – Alle 1.04 di una notte di trenta anni fa, il 27 maggio 1993, un fiorino imbottito di tritolo esplodeva di fronte alla sede dell’Accademia dei Georgofili, a due passi dagli Uffizi: 5 furono i morti – l’intera famiglia Nencioni, tra cui le piccole Nadia (9 anni) e Caterina (50 giorni) e lo studente fuori sede Dario Capolicchio – oltre 40 feriti e danni irreparabili al patrimonio storico-artistico. Firenze oggi ricorda una vicenda che ha segnato in modo indelebile la sua storia.
Fu il primo episodio dell’attacco al patrimonio artistico che prosegui quell’anno in via Palestro a Milano e alle basiliche di San Giovanni in Laterano e del Verano a Roma, messo in atto dalla mafia per decisione dell’intera “cupola” di allora: Totò Riina, Giuseppe Provenzano, Leoluca Bagarella, Antonio Graviano, Matteo Messina Denaro. A stabilirlo le indagini e i processi partiti proprio da Firenze: individuati gli esecutori e i mandanti materiali, rimane ancora oscura l’accertamento dell’esistenza di un terzo livello: i “mandanti occulti”, le connivenze con pezzi deviati dello Stato, i rapporti con la classe politica.
Una ricostruzione che per alcuni l’ultima sentenza del processo sulla cd. “trattativa Stato-Mafia” ha escluso. Ma i familiari delle vittime continuano la ricrrca di verità e giustizia: “La trattativa c’è stata, lo hanno scritto le sentenze di primo e secondo grado – dice il presidente dell’associazione Luigi Dainelli a Novaradio – la Cassazione ha solo detto che Mori e Subranni abbiano agito per iniziativa personale”. Riguardo i rapporti dei capi mafia con la classe politica e con la nascente Forza Italia di Berlusconi e Dell’Utri il mistero rimane. Le indagini continuano e le ultime piste poetano ai contatti tra terrorista nero Bellini, considerato informatore dei servizi, e il mafioso Gioè. “E’ stato lui a suggerire la nuova strategia stragista, i mafiosi neppure sapevano cosa fosse piazza della Signori” dice Daineli, che aggiunge: “La verità forse la potrebbe raccontare Messima Denaro, se si decidesse a parlare”.