ROMA – Non fu la nebbia, un’esplosione a bordo o un errore umano a causare la collisione, la notte del 10 aprile 1991, tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo e il rogo che provocò a morte di 140 persone. Lo scontro fu dovuto alla presenza di una terza nave, che costrinse il comandante Ugo Chessa a una virata disperata. Lo scrive nero su bianco la Commissione parlamentare d’inchiesta nella sua relazione finale, aprendo inediti scenari di indagine che, a distanza di 31 annui, potrebbero condurre finalmente ad appurare la verità dei fatti e le responsabilità.
Sull’identità della nave la commissione non ha certezze, ma fa delle ipotesi: una bettolina sfuggita ai radar, oppure la nave somala “21 Oktobar II”, coinvolta anche nelle indagini su un altro caso insoluto – quello della morte della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi. Ipotesi che rimanderebbe allo scenario di traffici illeciti di armi o altri materiali che si sarebbero voluti coprire. Di “svolta” parlano le associazioni dei familiari delle vittime, chiedendo nuovi accertamenti. Di “scenario inquietante” e “depistaggi” non ha esitato a parlare Luchino Chessa, figlio del comandante, puntando il dito su Eni e Navarma, armatori delle due navi, che finora non hanno fornito le risposte alle domande degli investigatori.
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